Come prepararsi ad affrontare le novità e gli imprevisti? Intercettando i segnali che arrivano da “futuri” possibili. Approfondisce per noi Fabio Millevoi, Direttore di ANCE Friuli-Venezia Giulia per professione, storico dei giardini per passione, futurista per necessità.
Lei è Innovation Manager certificato RINA e co-founder di AFI, Associazione Futuristi Italiani. Lavora, quindi, con i futuri utili a definire possibili scenari. Le proponiamo una domanda difficile, che le avranno posto in tanti: quanti e quali “futuri possibili” vede per l’Italia della ripartenza?
Il problema non è prevedere il futuro di un Paese, esercizio inutile perché predire il futuro è impossibile, ma come prepararsi ad affrontare le novità intercettando i segnali che arrivano dai “futuri” per aumentare le nostre informazioni, per ridurre le incertezze sulle possibili opzioni che abbiamo di fronte.
È la capacità di usare i futuri nel presente la chiave che ci consente di entrare nella programmazione delle decisioni di un Paese, di una città, di un’azienda, di un’organizzazione, attraverso una strada nuova. Dando voce ai futuri riusciamo ad assumere un approccio anticipante nella pianificazione di processi di medio e lungo termine. Ci sono alcuni aspetti del futuro che sono abbastanza conoscibili. L’analisi demografica, ad esempio, può dirci la percentuale della popolazione di una nazione che avrà più di 65 anni in un punto noto del futuro.
Se si dà ascolto a questa conoscenza e ci si domanda cosa significhi, si può cominciare a vedere, spesso in modo piuttosto chiaro, le questioni di cui bisognerebbe occuparsi e le azioni che si dovrebbero intraprendere nel presente. Siamo e saremo sempre più un Paese di anziani ma saremo anche un Paese per anziani? Ascoltando questa domanda potremmo vedere più chiaramente cosa fare, o potrebbe essere fatto, ora. Allo stesso modo, si può identificare come potrebbe essere una visione preferita del futuro. Per esempio, entro il 2040 potremmo voler avere un sistema energetico globale privo di emissioni di anidride carbonica. Se questa è una visione per cui ci impegniamo davvero, ancora una volta possiamo guardare indietro (all’oggi) e vedere le politiche e le azioni che dobbiamo intraprendere nel presente e nel prossimo futuro. In questo senso il futuro modella il presente nello stesso modo in cui le azioni del passato hanno modellato il presente. Se vogliamo cambiare il presente, la leva più potente per farlo può essere cambiare la nostra immagine del futuro, ciò che ci aspettiamo che accada o consideriamo possibile, o che preferiamo. In altri termini pensare ai futuri ci aiuta a cambiare il presente.
Concentriamoci per un momento sul comparto turistico. Nel 2019 discutevamo di overturism, nel 2020, il lockdown. Cosa è più probabile che accada ora? Assisteremo a un riassestamento dei normali flussi economici e umani, o ci troveremo ad affrontare situazioni completamente nuove?
Penso che continueremo a convivere con un “durante” coronavirus per un po’ di tempo ancora e quindi partirei da un’altra domanda apparentemente banale che Theodore Zeldin poneva provocatoriamente già alcuni anni fa e che oggi porta con sé tutta la sua attualità: cosa si può fare in un albergo? Cosa può fare, quindi, l’industria dell’ospitalità per costruire una risposta che apra la strada verso obiettivi finora inimmaginabili? Può continuare ad offrire un letto in strutture sempre più smart, in una gara fra “macchine” finalizzate solo a realizzare profitti oppure, in un mondo sempre più complesso e contraddittorio, agire da ambasciatore di sostenibilità ambientale, economica e sociale?
Considerati gli ambiziosi obiettivi del Piano Nazionale Energia e Clima gli orizzonti dell’accoglienza dovranno sicuramente contemplare interventi di riqualificazione energetica del parco immobiliare alberghiero ma, soprattutto, dovranno progettare strutture circolari in grado non solo di produrre ma anche di consumare e riciclare tutto quello che è al loro interno. Non semplici dormitori, più o meno lussuosi, ma, ad esempio, laboratori dove sperimentare la sostenibilità ricercando le interconnessi fra gli obiettivi dell’economia della ciambella (doughnut economy).
C’è, infine, un altro aspetto da non sottovalutare quando parliamo di alberghi: la mobilità.
Una mobilità sempre più vettore della “mondializzazione” e dove, in un labirinto di percorsi, tutto e tutti si muovono, per distanze brevi o molto lunghe, chi per ragioni di lavoro, svago o turismo. Ma contestualmente alla mobilità dobbiamo riconoscere anche il potere della connessione. Esiste, ormai, un numero sempre più significativo di persone in movimento e connesse. Una realtà che renderà sempre più difficile separare un luogo da ciò che vi accade. In altri termini vivremo sempre più la metamorfosi di “spazi – contenitore” in “spazi – convivenza”. Una riflessione che non riguarda solo le stazioni, gli aeroporti, le piazze o i centri commerciali ma, a mio avviso, interesserà sempre più anche gli alberghi; strutture ricettive che potrebbero trasformarsi da spazi dormitorio, più o meno stellati, in “humus” per possibili start up di innovazione sociale o per godere di una casa momentanea. Pensiamo al rapporto della generazione zeta (i nati dopo il 2000) con il turismo. Un turismo non necessariamente povero ma nuovo, attento alla sostenibilità e alla tecnologia e dove gli alberghi potrebbero, complice lo Smart working, diventare degli intermediari nella creazione di conoscenza curiosa favorendo scambi di notizie fra gli ospiti, il personale e i residenti, diventando driver di rivoluzionaria e condivisa cultura, quella cultura, in cui credeva Adriano Olivetti, che “dà all’uomo il suo vero potere e la sua vera espressione”. Alberghi, quindi, come cinghia di trasmissione di un’informazione “brandizzata” e soprattutto vera contro l’informazione manipolata. Un’evoluzione di ruolo e di significato – e non penso solo alle grandi strutture alberghiere ma soprattutto alle piccole realtà – che potrebbero, in un processo di contaminazione, dare un innovativo impulso anche al recupero e alla riqualificazione urbana di piccoli borghi antichi che vivono ormai, da anni, un processo di abbandono.
Parliamo di lungimiranza, fulcro del suo lavoro. Quali consigli darebbe al medio-piccolo imprenditore italiano desideroso di anticipare il cambiamento e reagire con prontezza all’imprevisto? Quali strumenti dovrebbe implementare? Quali attitudini?
Ribadisco quanto già detto. L’alfabetizzazione sui futuri (Futures Literacy) che non è “al futuro” ma è la capacità di pensare al potenziale del presente per dare origine al futuro, sviluppando ed interpretando storie sui futuri possibili, plausibili, probabili. Imparare, quindi, a usare il futuro nel presente è la competenza – che per l’UNESCO è, fra l’altro, la soft skill più importante del XXI secolo – che ci aiuta a capire che dobbiamo pensare ai futuri come a un ventaglio di possibilità, non come a un prodotto unico ma come a un processo che si produce e si consuma. Un’ alfabetizzazione sui futuri serve per mettere continuamente in discussione il “si è sempre fatto così”. Del resto, solo quando il sole tramonta vediamo le stelle, ovvero per vedere le alternative dobbiamo inibire le idee dominanti.